martes, 26 de octubre de 2010

Il giorno che mia madre mi chiamó


Il giorno che mia madre mi chiamó per dirmi che mio nonno era morto stavo comprando una caffettiera. In uno di quei negozi sottocosto, píeni di porcherie scadenti.

Mi vergognai.

Pensai che era un luogo indegno per ricevere una noticia del genere. Come quando ti beccano con le dita nel naso a messa in chiesa.

Il cellulare aveva suonato giá una volta. Non sento, riattacco, dicevo allo stridolío eletronico all’altro lato dell’apparecchio.

5 minuti dopo, risuona. 50% cotone, 50% poliestere leggevo con gli occhi. Il nonno è morto diceva la voce al telefono.

Va bene, adesso ti richiamo da casa. Riattacco. Merda.

Alzo gli occhi. Il magazzino sembra un circo felliniano. Surrealista, barrocco.

Gli abbasso. Oggi non è tempo per pensare alla decadenza.

É luglio. Non piove piú. Cammino e non penso a niente.

É luglio e non fa caldo. Solo piove qui a Salvador. L’acqua scende e scende.

É l’inverno di qua mi ripetono tutti. Bella schifezza dico a me stessa.

Le cicale stridono. Ho sempre pensato che siano animali sordi. Non sopporterebbero quel rumore se potessero ascoltarlo.

L’aria frigge. Il calore ti abbassa le palpebre. Nel giardino corpi sudati respirano all’ombra, affannosamente.

Mio nonno dorme, placidamente. Sempre nello stesso punto della veranda. Vicino ai buganvilla, fucsia. Occhiali da sole, bocca aperta, gambe alzate.

Al caldo, mio nonno il solo dorme.

Il nonno, l’africano, qualcuno susurra. Nessuno apre gli occhi. Tutti sorridono.

Le cicale, mio nonno. Ormai non so sé penso piú a l’uno o all’altro.

Mio nonno, l’africano.

É luglio e non fa caldo.

Non ci sono cicale in questo posto.

Solo Piove.

E mio nonno dorme al sole.

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